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Scampagnata a Mantova – 22 Marzo

28 Mar

La giornata non può che essere particolare, ricca di ricorrenze. Tanto per iniziare è la prima uscita Lonely Walker del 2009. Ho camminato parecchio in questi mesi e fotografato le bianche espressioni dell’inverno, ma per tanti motivi ho rimandato una vera e propria uscita LW fino all’occasione giusta: Mantova, appunto.

La primavera è appena iniziata, con un bel colpo di freddo ma tanto sole e profumi invitanti di concreto outdoor. Mantova è una città che esercita su di me un particolare fascino già da molti anni. Non è la prima volta che la visito, non la prima volta che batto il ciottolato con le scarpe e poggio i gomiti alla tavola della sua accoglienza enogastronomica. Quindi è pure un ritorno, che porta a nuove conclusioni.

Ma andiamo con ordine. Siamo un allegro manipolo di dieci amici che, con mio stupore, hanno trovato tempo e voglia per questa scampagnata fuori porta. La gita potrebbe trasformarsi nella naturale continuazione di una piccola tradizione che vede impegnati, ormai da qualche tempo, i componenti del gruppo: cene autogestite in casa, dedicandosi alla cultura di una particolare regione.

Il viaggio d’andata è una meraviglia, arriviamo presto a Mantova e dimentico la notte insonne per la straripante cena della sera prima. Visitiamo Palazzo Tè prima di ogni altra cosa, con le sue affascinanti sale e i Giganti schiacciati dalla potenza degli Dei. Questa sala ha una prospettiva scenograficamente perfetta e incredibilmente cinematografica. Il mio occhio però inizia a notare qualche nota stonata nella composizione: il palazzo sembra triste, vuoto, freddo.

Proseguiamo al museo della città, più che altro simbolico, e alla casa del Mantegna, dove ci meravigliamo alla vista di un cerchio che contiene un quadrato. Ma non siamo tutti architetti e preferiamo inebriarci dei sapori rustici e solidi della tradizione mantovana. Spendiamo il pranzo piegati alla lunga tavola di legno massiccio dell’Osteria dell’Oca: nome banale, piatti di carattere. Antipasti deliziosi, ricchi come un secondo, poi tris di primi: risotto alla mantovana (no, non è salsiccia, ma pasta del salame), tagliolini del Baffo (il deus ex macchina ai fornelli) ed i mitici ravioli di zucca, dove l’amaretto corona il gusto dolciastro dell’ortaggio. Il tutto innaffiato per bene di genuino lambrusco e chiuso in coda da cremone e sbrisolona.

Abbiamo placato l’appetito evitando il turistico e cogliendo l’essenza della tradizione locale: è bello trovare ancora posti come questi. E il merito è tutto della nostra guida in pectore senza bandierina cinese: Fabio. Lui si sente a casa, condivide con Virgilio erudizione e lontane parentele locali, fa sentire tutti a proprio agio. Giriamo allora per la città in cerca di viste classiche, romaniche, rinascimentali, barocche (e moderne, ma solo dove proprio serve).

Il pomeriggio scorre lieto e allegro, neppure il vento fresco ci intimorisce; l’elenco delle opere d’arte e dei palazzi è troppo ampio perché lo possa elencare: Mantova va vista di persona. Il mio occhio però nota ancora qualcosa di stonato: sento che le pareti del castello, così scrostate e sporche, non si accordano con la bellezza di Piazza Sordello. Resto senza parole alla vista di interi palazzi vuoti, disabitati, inutilizzati… e quindi inutili. Alla fine, tutti rabbrividiamo alla vista del fossato del Castello, mentre Fabio ci rivela la verità: buona parte dei palazzi è chiusa, vuota, spoglia, sporca e quasi diroccata.

La perpetua e l’italiano temo si limiterebbero ad esclamare: che peccato! E andrebbero oltre scuotendo un po’ la testa. Ma è davvero possibile, ammissibile? Mi chiedo dove siamo arrivati, se sotto gli occhi di tutti svalutiamo la nostra cultura e quindi la nostra tradizione, mentre a parole la decantiamo e nei fatti la sfruttiamo nel turismo. Mi accorgo che Mantova è un cimitero popolato di spettri: ogni luogo muore se non viene vissuto! Le chiese vivono dei fedeli, e certo anche dei visitatori. Un museo vive delle opere che presenta, degli studiosi e dei viaggiatori come dei curiosi. Ma un palazzo che non è sfruttato, per qualsiasi motivo, è solo abbandonato.

Sento che noi italiani ci siamo fatti maestri di questa arte che chiamiamo conservazione. Siamo tutti felici di perpetuare nel tempo un pezzo di storia, immobilizzato e inutilizzato. Ma se può funzionare (forse) per un’anfora, come può funzionare per un palazzo? Questo è fatto per vivere, per essere popolato, usato, adibito ad una qualsiasi attività umana. Può essere la visita o la contemplazione, le manifestazioni o l’abitazione privata. Ma perché invece lasciarlo inerte e morente?

Mi immagino quanto potrebbe giovare alle nostre perle di provincia uscire dal letargo e tornare a camminare. Poco importa la scelta di affidarle a privati o enti pubblici, purché le istituzioni giochino il ruolo di arbitri e supervisori. Non posso credere non esista un imprenditore locale abbastanza illuminato da offrirsi di restaurare e gestire un palazzo d’epoca, restituendolo alla città e usandolo come abitazione, come villa estiva o come reggia. Perché permettiamo a Mr B di farsi una reggia in Sardegna, invece di far risorgere il castello di Mantova? Potrebbe viverci come un signore, come erede di fatto del Duca di un tempo. Ma ridarebbe lustro e onore ad una città che, sotto la polvere, sta facendo la fina di una sbrisolona.

Ritorno alla realtà del nostro giretto che volge al termine. Qualcuno mi prenderà per pazzo, ma non credo nel conservare senza toccare: meglio riusare con criterio e gusto del bello. Un vecchio uomo, che stupidamente etichettiamo come “crucco”, ci ha pensato anni fa, abitando e rivalutando un castello della Val Venosta. Se le istituzioni sono in difficoltà e non possono arrivare dappertutto, riprendiamoci gli spazi della nostra storia e facciamoli rivivere!

Salgo in macchina ricco di pensieri, affascinato perché ogni volta a Mantova c’è qualcosa di diverso e di nuovo che mi aspetta. Purtroppo avremo tutto il tempo di distruggerci l’animo per colpa di lunghe e stupide code in autostrada, rischiando di annegare le forti sensazioni della giornata nel malumore. Per questo scrivo: per non dimenticare e ricordare. Ricordare e maturare.

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